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E’ già tardissimo, sono circa le 5-5.30 quando calpestiamo il primo ghiaccio dietro al rifugio. Non c’è ancora traccia del sole ma per fortuna ci sono ancora le tracce di coloro che sono passati prima di noi nei giorni scorsi. Non sono molto evidenti, ma la luce della luna e le nostre frontali ci permettono di seguirle con certezza. La salita comincia piuttosto dolce, poi quando il pendio si fa più ripido la traccia comincia ad avanzare a zig zag. In questa prima fase chiudo la cordata, non mi guardo molto intorno, tengo la testa bassa e penso solo a mantenere il ritmo ed a respirare con continuità. Ogni tanto mi sfugge qualche occhiata ai lati. Ad una cinquantina di metri sulla sinistra ci accompagna un crepaccio enorme, ma ancora c’è poca luce e non si distingue molto bene. Quando invece passiamo molto vicino a qualche crepaccio più piccolo quello che davvero attira la mia attenzione è il suo interno. La luce della luna (seppur debole) entra dentro e riflette uno spettacolo di forme e colori che lascia senza fiato, più della rarefazione dell’aria. Sono occhiate rapide tuttavia, siamo appena partiti e dobbiamo ancora spezzare il fiato con questa prima salita. In circa un’ora e mezza arriviamo vicino alla base della Piramide Vincent. Qui il colle si addolcisce nuovamente e diventa una distesa sconfinata e compatta di neve. Dovremmo cercare di rimanere vicino ai costoni di roccia che abbiamo sulla destra, ma man mano che proseguiamo ci inoltriamo sempre di più nell’infinito manto ghiacciato. Il vento continua a tagliare in due la valle e devono essere giorni che spira con questa forza e intensità. Infatti in tutto questo tratto le tracce che stavamo seguendo sono definitivamente sparite, spazzate via dalle folate di vento che sagomano le dune come nei deserti sabbiosi. Quando siamo sotto alla Punta Balmenhorn ci fermiamo e decidiamo di consultare la cartina che avevo preventivamente salvato sul cellulare.

“La felicità è reale solo quando condivisa”

Christopher MacCandless

     Mi tolgo i guanti, accendo il cellulare, cerco la foto che avevo fatto alla pagina del libro con la cartina, ci orientiamo, decidiamo dove andare, metto via il cellulare e mi infilo di nuovo i guanti. In tutto saranno passati due o tre minuti. La temperatura non è troppo estrema, ma il vento gelido è sufficiente a farmi perdere sensibilità alle dita. Nello zaino ho un altro paio di guanti che riesco ad infilare a fatica e quando ripartiamo a camminare impugno la piccozza e la bacchetta con forza cercando di muovere le dita senza fermarle mai. Due cose tuttavia mi fanno sorridere quando alzo lo sguardo: la prima è che davanti a me vedo Alessandro fare gli stessi movimenti con le mani; la seconda è che so che non manca molto prima che esca il sole a riscaldarci. Infatti mentre puntiamo dritti verso l’inizio della cresta del Lyskamm Orientale, le prime luci dell’alba cominciano ad affacciarsi. In lontananza dietro di noi, oltre al rifugio che abbiamo lasciato qualche ora prima, ci sono soprattutto le nuvole che avvolgono la valle attraversata nei due giorni precedenti. Siamo più in alto noi. Ed è bello rendersene conto.

     La salita ricomincia a farsi presto più impegnativa, vado avanti io e quando arriviamo praticamente sotto l’attacco della cresta del Lyskamm cerco di mantenere un ritmo un po’ più sostenuto per evitare che si faccia troppo tardi. Non avendo tracce da seguire abbiamo allungato un po’ il percorso arrivando troppo a ovest rispetto al Colle del Lys. Più o meno siamo a quota 4150 metri, e qui viriamo decisamente verso est lungo il costone del colle. Le condizioni delle neve purtroppo cominciano a non essere ideali. In alcuni punti il pendio è ghiacciato e si procede bene, ma in altri punti la neve è più soffice e si affonda ad ogni passo, a volte anche fino al ginocchio. Le energie tuttavia sono ancora molte, tiro la cordata con decisione e continuiamo a salire seppur non vedendo ancora la destinazione. La china di ghiaccio che sembra non finire mai non ci lascia intravedere nulla dietro di lei. Si procede praticamente alla cieca ma c’è bisogno di continuare a sfidare il vento e la neve soffice per arrivare a scavallare il valico. Dopo aver battuto la traccia per un altro lungo tratto giungiamo finalmente ai quasi 4300 metri del Colle del Lys. In pratica siamo sulla cresta, a destra c’è il vallone ghiacciato che abbiamo appena percorso, a sinistra la conca circondata dalla Punta Parrot, la Punta Gnifetti e la Punta Zumstein. E’ tardi, non ricordo nemmeno che ore fossero esattamente ma il sole stava cominciando ad insistere, e quando il terreno si scalda le condizioni della neve possono solo peggiorare ulteriormente. Anche qui non ci sono tracce e non si può proseguire a mezzacosta sotto la Punta Parrot a causa della presenza di diverse seraccate. Bisogna scendere di nuovo circa 150 metri di dislivello ed attaccare poi l’ultima ripida salita del Colle Gnifetti. Non importa se è già molto tardi, non importa se devo battere la traccia nella neve fresca, l’adrenalina è a mille, le gambe vanno da sole ed ho finalmente avvistato la Capanna Margherita, il rifugio più alto d’europa posizionato proprio sulla vetta della Punta Gnifetti che non sembra poi nemmeno così lontana. La saggezza di Simona nell’avvertirci che forse si sta facendo troppo tardi non può nulla contro la tremenda voglia di salire mia e di Alessandro. Dal punto di vista fisico poi stiamo già a 4300 metri, ma stiamo ancora tutti e tre benissimo senza risentire minimamente né dell’altezza né della mancanza di ossigeno.

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     Con decisione mi butto a capofitto nella discesa. Man mano che scendo l’accumulo di neve aumenta e si affonda sempre di più ma finché è discesa si riesce a procedere abbastanza rapidamente. Passare sotto al grande crepaccio della Punta Parrot fa un po’ impressione, quindi è decisamente meglio volgere lo sguardo verso sinistra dove l’impervia parete nord del Lyskamm ed il ghiaccio franato della Punta Zumstein fanno da quinta allo spettacolare panorama che culmina con la sagoma del Cervino in fondo. Non avevo mai visto dal vivo questo ardito triangolone alto quasi 4500 metri, protagonista di una epica scalata di Walter Bonatti, che nel 1965 salì in invernale ed in solitaria l’inospitale parete nord. Ci si sente piccoli piccoli di fronte ad imprese del genere di uomini fuori dal comune, e mentre siamo immersi in questi pensieri arriviamo quasi in fondo alla discesa, il terreno spiana per un breve tratto poi ricomincia a salire aumentando la pendenza passo dopo passo. Continua a non esserci nessuna traccia ma ormai il problema non è più perdersi, bensì camminare su neve non battuta. Se prima si affondava, ora si affonda di più. Ogni passo rompe la crosta superficiale ghiacciata e precipita pesantemente nella neve fresca fino al ginocchio. Ogni passo rompe l’equilibrio ritmico della camminata, bisogna estrarre fuori la gamba e tirarla in avanti nella speranza che il terreno non ceda come le volte precedenti. Sono ancora io il primo di cordata, la salita è sempre più ripida e camminare così a 4300 metri è veramente massacrante.

     Vado avanti ancora un po’, sento l’orologio che fa tic tac e cerco di non rallentare troppo, ma ormai dopo ogni passo la pausa per riprendere fiato e riposare un po’ si fa sempre più lunga. Ritirare fuori la gamba che è sprofondata dentro la neve di 50 cm diventa sempre più pesante. Quasi senza volerlo mi accascio un paio di volte nella neve; mi dà il cambio Alessandro per battere la traccia, poi di nuovo Simona, ed in effetti camminare nelle retrovie seguendo i passi di chi ti precede è molto meno faticoso. Arriviamo arrancando proprio sotto alla Punta Gnifetti, la vediamo sopra alle nostre teste e ci sembra vicinissima. Eppure sappiamo che quei 200 metri di dislivello che ancora ci separano sono tantissimi se affrontati con quelle condizioni di terreno. Ci fermiamo a riposare ed a riflettere un momento su quale direzione prendere. Alla fine a far girare l’ago della bussola è il tempo, che troppe volte schiaccia il presente tra il passato ed il futuro rendendolo troppo sottile.

    Avremmo anche potuto proseguire ed arrivare in vetta, magari ci avremmo messo altre due ore per fare quell’ultimo tratto ma ce l’avremmo sicuramente fatta. Purtroppo però noi dovevamo considerare anche il tempo per tornare indietro, non solo al rifugio della notte precedente, ma entro l’ora di pranzo del giorno dopo dovevamo calcolare di stare di nuovo alle macchine per fare il viaggio di ritorno in macchina il lunedì pomeriggio/sera. Senza vincoli di tempo saremmo saliti ed avremmo anche potuto dormire nella Capanna Margherita in cima, ma purtroppo non era la nostra situazione. Tutti e tre compatti prendiamo la decisione, seppur a malincuore, di tornare indietro. Alle 11 ed a circa 4400 metri di altezza invertiamo la pendenza del terreno sotto ai nostri piedi e cominciamo a scendere. Ripercorriamo la nostra stessa traccia per un centinaio di metri per toglierci da sotto quei grandi ed instabili massi di ghiaccio sulla parete e ci fermiamo a scaldare con il fornelletto una pentola di neve per farci un tè caldo. Addentiamo una salsiccia che ci stavamo portando dietro e respiriamo l’aria fredda e povera di ossigeno mentre contempliamo insieme lo splendido panorama che abbiamo di fronte. Quella mezz’ora di pausa è qualcosa di particolare. Sembra un picnic in campagna, invece siamo a 4300 metri, in un ambiente che non avevamo mai vissuto, sotto un cielo intensamente azzurro sopra di noi e circondati dal bianco accecante del ghiacciaio adagiato sulla montagna.

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     Dopo esserci rifocillati torniamo a camminare nella valle per l’infinita discesa cercando di non allungare di nuovo il giro tagliando stavolta più vicini alle pareti di sinistra. Il percorso è quello che avremmo dovuto seguire anche all’andata, anche se qui ora è un pochino più insidioso perché camminiamo direttamente sul pendio e perché ormai è quasi mezzogiorno ed il caldo potrebbe scoprire nuovi crepacci. A metà discesa, mentre stiamo passando sotto il Cristo delle Vette eretto sulla sommità del Balmenhorn, mi trovo al centro della cordata con Simona che procede davanti ed Alessandro dietro. All’improvviso, in un tratto dove apparentemente la neve sembrava essere un pavimento sicuro e compatto, alzo la testa e vedo Simona sparire e sprofondare nel terreno, risucchiata dalla trappola tesa a tradimento dal ghiacciaio. La corda legata alla mia vita si tende immediatamente, pianto i ramponi e Simona riesce ad incastrarsi nel buco con le braccia e la testa appena fuori dal manto nevoso. Sotto lo sguardo del Cristo delle Vette e con l’aiuto di ramponi e piccozza riesce ad uscire da sola ed illesa, ma è chiaro che ogni passo successivo sarà per tutti e tre più attento, teso e preoccupato. Nell’ultima ripida discesa prima del rifugio ci rendiamo conto della quantità di crepacci che avevamo attraversato quasi inconsapevolmente nel buio dell’andata. Sono tantissimi, grandi e piccoli, ci si passa accanto ed anche sopra, con ponticelli di neve che più di una volta non danno l’impressione di reggere troppo carico di peso. In compenso con la luce del sole aumenta ancora di più quello che la luce della luna aveva solo lasciato intravedere. Dentro i crepacci c’è un vero e proprio spettacolo. Il ghiaccio è blu e trasparente, le stalattiti sono affilate ed a volte le pareti scendono verticalmente talmente in profondità che non si riesce nemmeno a scorgere il fondo del crepaccio. Bellissimo, peccato non avergli scattato nemmeno una foto ma i brividi lungo la schiena non ci hanno lasciato prendere nemmeno una pausa lì nei paraggi. Dopo l’ora di pranzo siamo di nuovo a Capanna Gnifetti.

     Il resto della storia è in discesa. Quasi duemila metri di dislivello per tornare di nuovo alle macchine dopo la nottata passata a metà strada all’Oreste’s Hutte, un rifugio chiuso ed a quanto pare sequestrato già da qualche mese dalla Procura di Gressoney per presunti reati edilizi. Ci accampiamo sulla sua ampia terrazza in legno che si affaccia sulla valle, cuciniamo e divoriamo tutte le scorte che ci restano e passiamo una serata indimenticabile che ci fisserà nella mente il ricordo di quei tre giorni fantastici. C’è chiaramente un po’ di amarezza per non aver raggiunto la vetta, ma non è questo ciò che rimarrà di questo viaggio.

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   La foto che vedete qui è infatti la rappresentazione dell’entusiasmo, della felicità e della soddisfazione in una persona (oltre che del sonno). E’ stata scattata al termine di questo viaggio che in realtà è stato un fallimento, nel quale non sono riuscito a raggiungere l’obiettivo che mi ero proposto e nel quale è mancato il risultato a cui avevo dato tanta importanza. Ma forse proprio grazie a tutto ciò hanno potuto guadagnare maggior valore altre cose che erroneamente troppo spesso non vengono nemmeno considerate. Quello che ci ricorderemo per sempre sarà l’esperienza umana vissuta, la condivisione di uno scorcio di vita così intenso con delle persone così importanti, l’aver affidato l’uno all’altro la nostra fiducia ed in qualche modo anche la nostra vita. La crescita personale che si fonde con quella degli altri grazie allo scambio di opinioni ed idee, gli accordi ed i disaccordi, le decisioni difficili che si confondono con quelle più banali, la naturalezza con cui si è stati insieme e si è portata avanti questa bella e difficile avventura.

     La compagnia è uno di quegli elementi che permette ad un viaggio di essere un grande ed indimenticabile successo a prescindere dal raggiungimento della meta. Ed è stato proprio così. Sento di aver raggiunto una vetta molto più alta e reale di quella scritta su una cartina, senza grandi numeri ma con una genuina e sana voglia di avventura, condivisione e sentimenti.

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