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È sempre dura tornare alla vita di tutti i giorni dopo un lungo periodo passato in viaggio. Ormai lo so. Eppure questa volta è stato diverso perché ho sentito questa sensazione di disorientamento dopo un tempo di appena 4 giorni passato lontano da Roma e da casa. Forse la ragione è che stavolta non è stato il solito viaggio, bensì un’esperienza vissuta per la prima volta. Emozioni e sensazioni nuove, e la consapevolezza che a volte un insuccesso si può trasformare in un successo se valutato da un altro punto di vista. E’ vero che gli obiettivi sono fondamentali nella vita, ma spesso non raggiungerli è un indice di crescita e di maturità. Sto ancora metabolizzando le tante immagini ed emozioni che ho immagazzinato in così breve tempo, ma so già che rimarranno impresse nella mia memoria per sempre.

“Solo coloro che provano a superare i propri limiti, scoprono che a volte i limiti possono respingerli indietro.”

Frosty Hesson

Il viaggio comincia un giovedì sera di fine settembre, dopo essere uscito da lavoro. Parto da Roma in macchina con Simona, amica con la quale condividevo da mesi il desiderio di questa avventura. Dopo un lunghissimo tragitto in autostrada e dopo aver passato la nottata immersi nella nebbia ed accampati nel campo da calcio di uno sperduto paese della pianura padana, arriviamo in Val d’Aosta, dove dovremmo incontrarci con Alessandro, il mio compagno di viaggio di sempre che vive ormai da quasi tre anni a Monaco di Baviera. In questo periodo di lontananza le nostre strade si sono comunque incrociate spesso, e stavolta abbiamo appuntamento verso le undici nella piccola piazza principale di Gressoney da dove riusciamo appena a scorgere il ghiacciaio e la neve del massiccio sovrastante. L’obiettivo della nostra spedizione è di arrivare fin lassù salendo su una delle vette del Monte Rosa, in particolare Punta Gnifetti con un’altezza di 4554 metri. E’ un numero palindromo, fa impressione da qualsiasi verso lo leggi e fa già sentire la mancanza di ossigeno dell’aria rarefatta d’alta quota.

In stagione estiva si può utilizzare la funivia che porta fino ai 3200 metri di quota del ghiacciaio Indren. Da qui in un’oretta e mezza si giunge a Capanna Gnifetti a 3600 metri, base di partenza per tentare l’assalto alla vetta. Tuttavia, poiché siamo ormai fuori stagione, gli impianti di risalita ed i vari rifugi sono già chiusi da un paio di settimane e quindi non ci rimane altra opzione che salire ogni singolo metro di dislivello con le nostre sole gambe e senza sfruttare le varie diaboliche cabinovie, funivie, ovovie, sciovie o seggiovie. Zaino in spalla, cartina in mano ed un passo dopo l’altro. Questo forzato approccio purista alla salita in realtà mi piace, anche se bisogna ammettere che l’aggiunta di questi ulteriori 1500 metri di dislivello rende l’ascesa decisamente più dura. Dovremo calcolare almeno una giornata in più e dovremo anche portarci sulle spalle molto più peso, tra cibo, tenda e materiale da campeggio, come se già il materiale per la cordata su ghiacciaio non fosse sufficiente.
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Con queste premesse parcheggiamo le macchine in località Staffal e dopo aver preparato con attenzione gli zaini, cominciamo la salita. E’ venerdì, circa l’ora di pranzo, in cielo non c’è nemmeno una nuvola ed il sole scalda l’aria di autunno fino a farla confondere con quella dei mesi più estivi. Siamo a maniche corte e si suda molto, comincio a chiedermi se avremo davvero bisogno di tutto l’abbigliamento pesante ed invernale che ci portiamo dentro gli zaini. Già la sera tuttavia arriva la risposta. Ci fermiamo a cercare una spianata adatta per montare la tenda a circa 2600 metri, a metà strada tra il punto di partenza e Capanna Gnifetti, e ci rendiamo subito conto che l’escursione termica tra il giorno e la notte è incredibile. Quando il sole sparisce lentamente dietro alle montagne la temperatura cala di circa 10 gradi, e continuerà a scendere durante la notte fino ad arrivare a sfiorare lo zero. Ci sbrighiamo a cucinare e cenare, e rapidamente ci infiliamo dentro i sacchi a pelo al riparo della tenda.

Tutto sommato questi primi due giorni non sono particolarmente duri. E’ tutta salita, è vero, ma possiamo salire con calma e tranquillità. Verso l’ora di pranzo del sabato arriviamo al Rifugio Mantova. E’ un incanto, grande e confortevole, con un locale invernale che sembra di lusso, con letti, bagni ed un sistema di raccolta dell’acqua molto intelligente. Ci fermiamo a mangiare qualcosa sulla sua grande terrazza completamente in legno che ci restituisce la luce del sole assorbita durante la mattinata sottoforma di caldo tepore. Dopo poco ci incamminiamo per raggiungere Capanna Gnifetti, circa 200 metri più su. Qui il locale invernale è più spartano ma è comodissimo per chi vuole andare a tentare le vette del Monte Rosa. Siamo infatti già a quota 3600 metri ed una delle cose che mi colpisce di più di questo viaggio è che in qualsiasi altro cammino, trekking o alta via, dopo due giorni di salita e dopo aver raggiunto altezze del genere si può solo ricominciare a scendere. Stavolta invece no. Mancano ancora ben 900 metri di ulteriore salita per raggiungere Punta Gnifetti.
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Finora non abbiamo incontrato neve, solo un piccolo tratto prima del rifugio. Il panorama è sempre stato molto verde, con tanta acqua ed ampi pratoni a colorare l’interno della valle. Nel pomeriggio ci andiamo ad affacciare dietro al rifugio dove comincia il grande ghiacciaio del Lys che dovremo percorrere interamente il giorno dopo. Ci si prospetta una dura giornata, bianca, fredda, ma soprattutto nuova, perché nessuno dei tre ha molta esperienza di progressione su ghiaccio, e soprattutto in questo periodo bisogna fare molta attenzione. In pratica durante la stagione estiva il ghiacciaio si ritira progressivamente e si apre, formando delle fenditure profonde e pericolose. Spesso sono crepe di grandi dimensioni ed evidenti, altre volte invece possono essere più strette e magari coperte da uno strato superficiale di neve. Può capitare quindi di camminare inavvertitamente sopra ad un crepaccio e se lo strato di neve non è sufficientemente solido da reggere il nostro peso, può capitare che si rompa. Sentire il suolo che manca sotto i piedi e cadere dentro ad una scultura naturale di ghiaccio non è la cosa più piacevole del mondo (per quanto affascinante), per questo in spedizioni del genere è sempre bene procedere in cordata, soprattutto in questo periodo. Si cammina legati l’uno all’altro in modo che in caso di caduta ci si possa reggere a vicenda e ci sono tutta una serie di tecniche che è necessario conoscere per poter procedere in sicurezza. Durante la serata ci mettiamo a ripassare la lezione, facciamo finta di preparare la corda, nodi a palla, bulini e cordini di svincolo. Ripassiamo anche le varie manovre di emergenza per fissare una sosta su ghiaccio, per effettuare il recupero da crepaccio e per montare un paranco per essere in grado di ritirare su anche una persona che ha perso i sensi. Sappiamo che il Monte Rosa è una salita relativamente facile, lo abbiamo scelto proprio per questo essendo la nostra prima volta oltre i 4000 metri, ma non si sa mai, e l’idea di essere completamente fuori stagione non ci da molta sicurezza.
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L’obiettivo è quello di partire a camminare il prima possibile, prima che esca il sole, così da sfruttare il freddo della notte e la neve ben ghiacciata che aiuta a camminare meglio con i ramponi e diminuisce il pericolo dei crepacci nascosti. Appena dopo lo splendido tramonto ce ne andiamo a dormire, gli zaini sono già praticamente pronti e gli indumenti invernali scalpitano per dare finalmente il loro contributo a questa spedizione. La sveglia è puntata alle 3 di mattina, ma la notte sembra lunghissima. La luna è quasi completamente piena e la luce si riflette sul bianco del ghiacciaio prima di entrare nel locale invernale attraverso la sua piccola finestrella. Non si dorme granché, quando suona la sveglia sono già sveglio da un pezzo. Facciamo colazione e cominciamo il complicato rito della vestizione. Fuori siamo qualche grado sotto lo zero, e sappiamo anche che sul ghiacciaio tirerà un gelido vento da nord. Calzamaglia, pantaloni e guscio in goretex sotto; maglia termica pesante, un pile e giacca in goretex sopra. Calze pesanti e scarponi ai piedi, guanti alle mani e testa incappucciata nel pile e nella giacca. Come se non bastasse, l’albero di natale umano è addobbato anche da ramponi, bacchette, piccozze, imbrago, corda, cordini, fettucce, moschettoni, discensori, caschetto, frontale e zaino. Conciati così facciamo fatica anche solo a muoverci, e pensare che non siamo ancora nemmeno partiti…

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