Se nella steppa kazaka, da Aktau sul Mar Caspio a Beyneu vicino al confine con l’Uzbekistan, ce la siamo cantata, nell’Ustyurt Plateau abbiamo cantato di meno!
Arrivati troppo presto nella ridente cittadina di Beyneu, siamo stati costretti a sette giorni di sosta forzata in attesa che si avvicinasse la data d’inizio del visto per l’Uzbekistan. In questo lasso di tempo abbiamo avuto modo di fare diverse constatazioni. Prima tra tutte la qualità dei supermercati, che in questa parte di mondo è davvero scadente. Dimenticate d’inverno frutta e verdura, niente zuppette o sughi pronti, una sola varietà di salame e di formaggio ma scaffali colmi di scatolame di carne dal dubbio gusto.
Nonostante le strade siano ricoperte di ghiaccio, neve, fango o sabbia le donne portano ostinatamente degli stivaletti con i tacchi, senza alcun tentennamento nella camminata! L’illuminazione stradale non è prevista, per cui dopo il tramonto se si vuole andare a fare la spesa o al bancomat bisogna portarsi la frontale. Nessuno parla inglese e pochi hanno voglia di farsi capire. Ma la cosa più bella è che i bambini vagano tranquillamente per strada a qualsiasi età, cosa oramai rara a Roma.
Sono solo 80 chilometri fino al confine e contiamo di metterci un giorno e mezzo, ma da queste parti non sai mai cosa può succedere! Durante il soggiorno a Beyneu sono caduti 20 centimetri di neve, che con le temperature fisse sotto i -10 hanno reso le strade delle lastre di ghiaccio, non esiste pulizia stradale se non il normale traffico di macchine e camion, e tanto meno esistono macchine spargisale. Per cui già dai primi chilometri per uscire dal villaggio capiamo che questi saranno 80 chilometri davvero duri. La pedalata fino al confine ci mette a dura prova, vento gelido a 40 km/h perennemente contrario, fondo stradale al limite del pedalabile a causa del ghiaccio e della totale assenza di asfalto (praticamente è un tratturo), riusciamo per fortuna ancora a godere del sole, della presenza dei cammelli e dei colori del tramonto su queste terre che guardano all’infinito. Impieghiamo due giorni e mezzo per raggiungere il confine, al quale arriviamo carichi di speranza sulla qualità delle strade in Uzbekistan e sul miglioramento del vento.
I giorni che seguono invece sono scanditi da estenuanti pedalate contro il vento maledetto, un nemico invisibile ma terribilmente forte. Ogni mattina ci alziamo con la speranza che abbia cambiato direzione ed ogni giorni ci ritroviamo a pedalare in testa (per coprirci dal vento) a turni di 10/15 minuti massimo. Quando la sera esausti raggiungiamo i 50 km pedalati, siamo sopraffatti da un misto di gioia e sconforto. Sconforto perché in questa parte di deserto davvero non c’è nulla per centinaia di chilometri e rifornirsi è un enorme problema, gioia perché comunque siamo riusciti a combattere il vento almeno per questa distanza. Questo è il mondo remoto che la nostra avventura sognava, popolato solo da sabbia, distese di arbusti all’infinito, tramonti mozzafiato e notti scandite dal rumore del vento sulla nostra piccola e forte tenda. Niente insetti, animali, esseri umani, niente! Niente acqua, qualche chiazza di neve sporca e vecchia diventa la nostra unica fonte di liquidi.
Durante il giorno in strada ci fanno compagnia solo le nostre ombre sull’asfalto, qualche camion e sporadici convogli di macchine senza targa che passano veloci al nostro fianco. Il totale deserto ci costringe, nelle pause, a cercare riparo dietro le nostre biciclette.
Otto giorni per percorrere 420 chilometri, otto giorni di lotta con il vento ed il freddo, davvero al limite delle nostre capacità mentali. Già perché è la mente che più di tutto soffre, è la mente che si ribella alla pedalata controvento, alle notti gelide, alla razionalizzazione dell’acqua. Mente che però non ha mai pronunciato le parole: ” chi me lo ha fatto fare!” Anzi, una mente stanca ma concentrata sul “come fare se restiamo senza acqua, come fare se tutto si congela, come fare se non arriviamo in tempo a destinazione”. Forse, con un pizzico di presunzione, penso che sia questa la mente che ci permette di vivere grandi avventure come questa.
Avventura che si conclude come nelle migliori favole, con un principe azzurro che salva la principessa portandola al castello. Nel nostro caso il principe azzurro è un caro amico di un mio amico uzbeko, Mars, il quale sapendo del nostro viaggio aveva allertato tutti i suoi contatti in giro per il paese, affinché fossero pronti a darci ospitalità ed assistenza. Siamo a 40 chilometri da Kunghirot, primo avamposto di civiltà dopo il deserto, quando una macchina ci intima di fermarci. Ne scende un uomo sui quarant’anni che, in ottimo inglese, ci chiede il nostro paese di provenienza. ” Italy!” rispondiamo aspettando in risposta i soliti “Ah Toto Cutugno, Celentano, Cattaneo!” invece ci sorprende con un ” I know who you are” (so chi siete).
Ci ritroviamo così nuovamente ospiti. Dopo giorni di deserto ci catapultiamo nella civiltà e finalmente possiamo cominciare a conoscere l’Uzbekistan, quello delle persone, dell’ospitalità, del plov, della valuta più svalutata e dell’impossibilità di prelevare da un bancomat. Già perché prendere i soldi in questo paese è decisamente più difficile che traversare il deserto, ma a questo dedicherò un capitolo a parte!
3 comments
Paolo 27 Maggio 2015 at 19:38
Bellissima narrazione. Bravissima Simona a scrivere. Un abbraccio e buon proseguimento.
Ciao Daniele. Ciao Simona
Paolo
federica 28 Maggio 2015 at 22:48
Wow!un racconto veramente emozionante e bellissime foto. Siete fortissimi!!!
Federica.
Licia 29 Maggio 2015 at 20:48
Leggere il vostro diario è sempre un piacere. Ci fate viaggiare con voi, conoscere posti bellissimi, che per la maggior parte di noi sono irraggiungibili, e culture diverse dalla nostra.
La cosa che mi rende più felice è sapere che ci sono persone che vi ospitano e vi fanno compagnia in questo bellissimo viaggio.
Buona pedalata. Continuate così!